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La maledizione nucleare di Pripjat’

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Esiste un luogo funereo e spettrale nell’oblast’ di Kiev, in Ucraina settentrionale: sono le rovine intossicate di Pripjat’, città ormai deserta che si trova nella grande area paludosa della Polesia. Nella palude immersa nel silenzio tombale, oggi ciascun edificio è corrotto e deteriorato: case e alberghi ospitano spiriti. Neppure i topi, ventott’anni dopo, si arrischiano a trovarvi alloggio. All’inizio degli anni Settanta fu costruita per le famiglie di lavoratori – tecnici, ingegneri e operai specializzati – della vicina centrale elettronucleare “Lenin” di Černobyl’, situata a poco meno di tre chilometri dal centro abitato. Pripjat’ giunse a contare quasi 50mila abitanti nel 1986, anno del terribile incidente atomico che, nella notte di sabato 26 aprile, causò l’esplosione al reattore numero 4. Tutti giovani (all’epoca, l’età media era di circa trent’anni) e volenterosi i laureati e diplomati partecipi del progetto tecnologico-energetico che avrebbe devastato migliaia e migliaia di vite. Investiti per primi dalle polveri radioattive, ignari cittadini furono esposti per trentasei ore a livelli di contaminazione impressionanti. Basti pensare che nei dintorni del reattore sin da subito si misurarono circa 20mila röntgen orari, ossia valori duecento volte superiori alla soglia letale per l’uomo – l’esposizione a 100 R/h per cinque ore, uccide un essere umano. Ripercorriamo gli eventi allarmanti che hanno sconvolto l’esistenza e la memoria collettiva di milioni di persone. Durante un test di sicurezza sfuggito al controllo, all’una e 24 ante meridiem (ora locale) della tiepida primavera ucraina, un intenso boato squarcia il cielo: pezzi incandescenti del reattore saltano in aria e si disperdono sul tetto del blocco numero 4, propagando l’incendio sino a cinque livelli diversi. Alla prima esplosione, duemila tonnellate di copertura d’acciaio volano via come cenere al vento. Seguono altre violente detonazioni: il nocciolo, giunto a potenza e temperatura elevatissime, affonda di alcuni metri nel suolo. Materiali e gas altamente radioattivi si diffondono nell’atmosfera, mentre sulla bocca dell’inferno sopraggiunge la squadra di emergenza capitanata da Vladimir Pavlovič Pravik (n. 1962). Accorrono anche i Vigili del fuoco di Pripjat’: alla testa, il 23enne tenente Viktor Nikolaevič Kibenok (n. 1963). Per merito di questi ragazzi, compagini militari duramente addestrate, si compie un atto eroico d’inestimabile valore: impedire alle fiamme di raggiungere i tre reattori vicini – e il conseguente rilascio di enormi cifre di gigabecquerel – costa sofferenze inenarrabili. Con la pelle annerita dalle radiazioni, Pravik, Kibenok ed i loro compagni muoiono l’11 maggio in ospedale, a Mosca. Avvelenati dai fumi tossici per aver domato le fiamme, hanno così scongiurato il crollo totale della struttura portante, deformata dall’onda d’urto.

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All’alba del 26 aprile 1986, tutti i focolai sono vinti. Le prime squadre d’intervento esterno arrivano da Kiev, coordinate dal maggiore Leonid Petrovič Teljatnikov (1951-2004). Purtroppo, la grande nuvola intossicata si espande con rapidità nel 70% del territorio della confinante RSS Bielorussa.

È ormai domenica mattina. Un’ordinaria domenica come le altre per le vie di Pripjat’. Solo in apparenza, poiché i funzionari del PCUS diffondono l’allarme alla radio:

Attenzione, attenzione… Egregi Compagni, il Congresso dei Deputati del Popolo informa che in relazione all’incidente avvenuto alla centrale nucleare di Černobyl’, nella città di Pripjat’ si è creata una situazione radioattiva avversa. Dal Partito e dagli organismi militari sovietici sono state adottate tutte le dovute contromisure. Nonostante ciò, per la sicurezza della popolazione, in primo luogo dei bambini, oggi, 27 aprile, a cominciare dalle ore 14 sarà effettuata un’evacuazione temporanea dei residenti e dei vicini centri abitati (…) 1.

Un fulmine a ciel “sereno”. Più di mille autobus dell’azienda municipale di trasporto di Kiev allontanano le famiglie dalle proprie case: quasi nessuno farà più ritorno in quella che un tempo era una ridente cittadina operaia. L’incubo è iniziato. Pripjat’ e tutto ciò che si trova nel raggio di trenta chilometri dall’incidente diventano la Zona di alienazione, un luogo infetto e sventurato ove conifere sempreverdi si sono tinte di rosso; volano rondini albine. Fanghi venefici minacciano corsi d’acqua e laghi – dato che le polveri di iodio 131, cesio, stronzio e americio 241 permarranno nel sottosuolo per millenni. Allo scopo di limitare la dispersione di isotopi radioattivi, immediatamente dopo la sciagura si è reso inevitabile il sacrificio dei “liquidatori”.

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Militari, operai, vigili del fuoco, elettricisti, personale medico e minatori dell’(ex) Unione sovietica detergono le strade, rimuovendo gli strati superficiali di terreno: dall’86 al ’90 saranno in 600mila a occuparsi della decontaminazione, nonché della costruzione del sarcofago di contenimento del reattore esploso. Circa un terzo di loro assorbirà una dose critica di radiazioni: pagheranno quest’opera con il sangue.

Il 1° maggio la nube minacciosa, dopo aver sorvolato vaste aree2 del continente, investe l’Italia – riversando piogge contaminanti sulla penisola e panico, in special modo al Nord. Un’ordinanza del Ministero della Sanità impone il divieto alla commercializzazione di latte e verdure fresche: scoppia la polemica contro la decisione di Costante Degan (1930-1988). Eppure, i valori di radioattività al suolo e nei vegetali raddoppiano in ventiquattr’ore, mentre l’unico albergo europeo munito di rifugio antiatomico – il “Cristallo Palace” a Bergamo – viene preso d’assalto. Mobilitazioni antinucleari scuotono il Belpaese. Verdi, ecologisti e l’ala del Pci capeggiata da Antonio Bassolino (n. 1947) protestano contro lo sviluppo delle centrali di Trino Vercellese e Montalto di Castro.

I radicali lanciano la raccolta delle firme per il referendum che si terrà l’8-9 novembre dell’87 – e con cui saranno abrogate in larga maggioranza le norme in votazione. Vince la coscienza antinucleare degli italiani.

Da due anni a questa parte, è stato annunciato che i lavori per il nuovo sarcofago di Černobyl’ dovrebbero essere completati nel 2015. Si tratta di un’impresa immane. Avviato fin dal 1997, il progetto prevede una struttura di protezione pesante 29mila tonnellate, studiata per resistere almeno un secolo: nella centrale maledetta il combustibile fuso è tuttora incandescente.

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A Pripjat’, il parco giochi allestito per la ricorrenza del primo maggio – destinato ai 17mila bambini che vi abitavano – con gli autoscontri e la ruota panoramica gialla, è il punto più contaminato della città. In seguito all’incidente, l’immaginario della mia generazione è popolato di scene orrorifiche e mutanti deformi3. Ancora oggi, nei sovchoz delle campagne ucraine, sopravvivono esseri, umani e non, con inevitabili alterazioni genetiche4.

Note:
Flora Liliana Menicocci

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