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Italia, trent’anni di immigrazione e inerzia politica

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Tempo fa avevamo parlato dell’incremento dei flussi migratori e degli sbarchi di profughi dal Nord Africa sulle coste meridionali dell’Italia, un’impennata che si registrava fin dal 2011 e portava con sé drammatiche conseguenze, imponendo una risposta istituzionale all’emergenza. La costosa operazione Mare Nostrum per il controllo del Canale di Sicilia e la gestione della crisi umanitaria aveva impegnato le forze della Marina e dell’Aeronautica militare italiana dall’ottobre 2013 al 2014, scatenando controversie sulle responsabilità del governo Letta – su cui gravava l’onere finanziario della missione, stimato in 100 milioni di euro annuali – e il coinvolgimento dell’Unione europea nella questione militare-umanitaria: respingere i trafficanti di esseri umani, impiegare mezzi idonei al salvataggio di migliaia di naufraghi, nonché occuparsi del problema delle frontiere. Dal 1° novembre 2014, l’operazione Mare Nostrum fu sostituita dal programma europeo Triton di Frontex, al quale oltre all’Italia, offrono volontariamente il proprio contributo altri quindici dei ventotto Stati membri: Francia, Spagna, Portogallo, Austria, Svizzera, Romania, Polonia, Islanda, Finlandia, Norvegia, Svezia, Germania, Paesi Bassi, Lituania e Malta. Frontex ha un costo complessivo di circa tre milioni di euro al mese per il presidio dei flussi di migranti, si avvale di mezzi aerei e navi di sorveglianza, personale di intelligence e addetti all’identificazione: nonostante tutto, le vittime nei naufragi nel Mediterraneo sono incrementate dal 18 aprile 2015, quando il ribaltamento di un peschereccio di nazionalità eritrea al largo delle coste siciliane costò la vita a 58 persone. L’afflusso migratorio crescente a partire dal 2011 può essere collegato all’instabilità di paesi come Libia, Siria, Eritrea e Somalia, eppure non si tratta di un fenomeno completamente nuovo. In Italia, dagli anni Ottanta si erano sollevate voci insistenti circa il cosiddetto “Sesto continente”, com’era definito dagli esperti che già avevano previsto il progressivo e costante aumento degli immigrati residenti sul territorio. Finora, nessun governo ha saputo – o voluto – affrontare apertamente la situazione, fin dai tempi in cui a dominare la scena politica erano le culture marxista e cattolica. Torniamo indietro per ricordare cos’è accaduto.

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Attirati dal benessere economico in cui veleggiavano gli italiani quando, nel 1988, il Fondo monetario internazionale (Fmi) annunciava che le riserve valutarie del Belpaese avevano superato il valore di quelle statunitensi – 30 miliardi 452 milioni di diritti di prelievo escludendo l’oro, di cui le nostre riserve erano superate solo da Giappone, Germania Federale e Regno Unito – i più poveri del pianeta (nel complesso, circa l’80% della popolazione mondiale) si misero in viaggio verso l’El Dorado. Paesi dove il reddito medio annuale rappresentava per loro una chimera: 14mila dollari negli Stati Uniti d’America, 9mila per un europeo – contro i 600 dollari di un marocchino e i 260 dollari di un indiano, oltre ai redditi ancora inferiori di somali, eritrei, etiopi. Città e spiagge si popolarono di coloro che tutti, indistintamente, chiamavano “vu’ cumprà”, venditori ambulanti di cianfrusaglie sotto il sole cocente dell’estate, lavoratrici domestiche dalle Filippine e Capo Verde e lavoratori stagionali dall’Africa per la raccolta degli ortaggi e frutta. La maggior parte degli immigrati – le stime all’epoca variavano da 500mila a un milione e mezzo – non commetteva reato per l’ingresso abusivo nel nostro paese. Inoltre, la legge 943/1986 che avrebbe dovuto regolare l’immigrazione non prendeva nemmeno in considerazione la posizione degli stagionali, né di ambulanti e autonomi. Perfino lo status di rifugiato politico era attribuito esclusivamente agli stranieri provenienti dall’Europa dell’Est, come stabilito con la clausola geografica della Convenzione di Ginevra nel 1946 – e, per citare un caso, non veniva riconosciuto agli eritrei in fuga dal dominio e la repressione dell’Etiopia.

L’Islam era già la seconda religione in molte città: Napoli, Roma, Milano, Torino, Genova, Firenze e Palermo ospitavano la stragrande maggioranza degli oltre settecentomila immigrati musulmani. Una realtà che già poneva il Vaticano, principale sostenitore dell’accoglienza ai migranti, in una condizione disagevole: i fedeli della luna crescente non sono disposti a dimenticare Maometto. Anche il futuro conflitto etnico si profilava all’orizzonte, nell’indifferenza pressoché generale. Gli allarmi sul calo delle nascite in Italia e l’approssimarsi di una decadenza demografica si susseguivano: negli anni Ottanta il salto dallo Stato nazionale al “melting pot” – la società multiculturale – per gli esperti era un panorama futuro più che probabile. Era stata prevista anche la crisi del sistema previdenziale e si vociferava dell’eventualità che sarebbero stati gli immigrati a colmare i vuoti del ricambio generazionale e permettere agli anziani italiani di percepire la pensione. Lo scenario delle aree metropolitane composte da quartieri etnici, moschee e negozi di kebab – come in altre capitali europee – a Torino iniziava a concretizzarsi.

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Dall’Istituto di ricerche sulla popolazione del Cnr giungevano i primi dati che delineavano l’evoluzione futura del fenomeno: manifestazioni di intolleranza si sarebbero verificate nel momento in cui la percentuale di stranieri sul territorio avrebbe raggiunto la soglia ipotetica del 7-8%. L’autorevole demografo Antonio Golini valutò che se nel 1988 in Italia gli stranieri rappresentavano l’1,7% – per la maggior parte, si trattava di diplomati e laureati – il dato avrebbe raggiunto il 9,3% nel 2018. Facendo un confronto coi dati Istat del 2015, sono stati censiti 5.014.437 stranieri che rappresentano l’8,2% della popolazione residente: ovvero, la soglia di tollerabilità ipotizzata è stata raggiunta e le previsioni demografiche di quasi trent’anni fa sono state confermate. Perché, nonostante l’evidenza dei fatti e l’urgenza di una risposta politica comunitaria non è stata affrontata tempestivamente la questione? Tuttora, esistono immensi vuoti normativi.

Per una prima regolamentazione del soggiorno e l’abolizione della riserva geografica nei confronti dei richiedenti asilo, si è giunti al 1990 con la legge Martelli che varò una sanatoria per gli immigrati entrati in Italia fino ad allora. Solamente sul finire degli anni Novanta il governo Prodi prese atto che il fenomeno dell’immigrazione (triplicato in poco più di un decennio) è strutturale e necessita di un programma a lungo termine: la legge 40/1998 (Turco-Napolitano) è stata la prima normativa organica in materia. Misure restrittive nella durata del permesso di soggiorno rinnovato e nella permanenza come disoccupati vengono stabilite nel 2002 dal governo di centro-destra guidato da Silvio Berlusconi e, due anni dopo, con il provvedimento Bossi-Fini sono regolate le politiche migratorie e occupazionali; diventa operativo lo sportello unico per l’immigrazione. Il reato d’ingresso e di soggiorno illegale viene introdotto dal decreto 94/09 che stabilisce, fra l’altro, una procedura di trattenimento nei Centri d’identificazione ed espulsione prolungata fino a un massimo di 180 giorni, l’obbligo di registrazione delle impronte digitali, un test di conoscenza della lingua italiana ed il pagamento di una tassa per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno. Respingimento in acque extraterritoriali e reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina fanno parte di accordi bilaterali fra l’Italia e i paesi limitrofi.

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Flora Liliana Menicocci

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