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Dove sono gli eurofanatici degli anni Novanta?

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L’economia italiana non è morta, bensì è in fase di ripresa grazie all’euro, la moneta che “ha prodotto una forte ristrutturazione delle economie europee, creato mercati più limpidi e trasparenti, ha fatto sì che le imprese si finanzino con facilità”: erano le parole con cui Mario Monti inaugurava l’anno accademico della Guardia di Finanza, nel 2000 a Bergamo. Due anni prima, dagli Usa un raggiante Romano Prodi incensava il governo statunitense per aver sostenuto l’euro – che, aggiunse, avrebbe presto fatto concorrenza al dollaro come valuta internazionale. Dimenticandosi, però, di spiegarci perché mai gli Stati Uniti avrebbero incoraggiato tanto alacremente la concorrenza, se non per avere un proprio tornaconto materiale che solo gli oscuri algoritmi di Wall Street potevano prevedere. Non certo noi abitanti del Vecchio continente, bombardati da propaganda a sirene spiegate fin dagli anni che hanno preceduto l’ingresso nella zona euro. E nel 1998, mentre il New York Times adulava Prodi paragonandone le destrezze politiche a quelle di Bill Clinton, sorgeva a Bruxelles l’istituzione centrale dell’Eurosistema e del meccanismo di vigilanza unico: la Banca centrale europea (Bce), la cui nascita avvenne in un clima di furioso scontro franco-tedesco – che Prodi all’epoca definì “folkloristico” e “perfino divertente” – per la nomina del primo governatore, Willem Frederik Duisenberg. Il francese Jean Claude Trichet dovette attendere il 2003, e non altrettanto spensierate furono le reazioni di coloro che intravidero conseguenze nefaste in un simile esordio.

Imperterriti, gli eurofanatici seminavano in lungo e in largo il mantra: Euro, più lo conosci più lo apprezzi. Dipingevano un’Italia in preda alla febbre dell’euro, il Belpaese in cui soltanto una percentuale esigua e trascurabile – il 4% secondo un sondaggio svolto dalla Doxa nel gennaio ’98 – si dichiarava piuttosto contraria alla moneta comunitaria. Inutile dire che, col senno di poi, come slogan forse sarebbe stato più appropriato “se lo conosci, lo eviti”. O almeno, viene difficile credere che attualmente a rimpiangere la Lira siano gli stessi trascurabili pareri (gli specialisti dei sondaggi d’opinione sottolinearono che si trattava di anziane e disinformate casalinghe) di diciott’anni fa. Ci vorrebbe un nuovo accurato sondaggio: perché no? Probabilmente, ai sostenitori dell’euro non conviene troppo mettere il dito nella piaga, a distanza di meno d’un anno dall’allarme Grexit che ha fatto tremare i mercati – e torna a destare preoccupazione, secondo gli analisti di Eurasia Group, un’eventuale uscita di Atene dalla zona euro per la questione dei profughi, oltre alla pressione economica – nonché in vista del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Ue, il 23 giugno prossimo.

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I cospicui benefici che l’economia italiana avrebbe avuto dalla conversione in euro erano stati messi in dubbio nel 1999 dall’associazione per la difesa dei consumatori, Adusbef: un calcolo effettuato sui titoli di Stato aveva valutato una perdita di circa tre miliardi di lire ai sottoscrittori. Per quanto riguarda il rischio d’inflazione – nel 2002, dopo due mesi dall’introduzione dell’euro equivaleva al +6%, fra inflazione percepita e reale1 – resterà emblematico l’aneddoto del pescivendolo raccontato negli anni Novanta dall’ex ministro del Tesoro, Giuliano Amato:

“Ieri mia moglie è andata a comprare il pesce al supermercato. Le sogliole, le alici e le spigole avevano il cartellino con il doppio prezzo in lire e in euro. Quest’ ultimo, però, era di 88,8 euro per tutti i pesci; mia moglie ha chiesto come mai, e il garzone: a signo’, che vuole che me metto a fa’ i conti per davvero?”

Note:
1 Paolo Poggi, L’euro tra inflazione percepita e politiche di pricing, Camera di Commercio di Milano, Indice N.61/2002.

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