Leggi i racconti di Stellarius

Generazione X

Sapere aude

Hitchcock o Tarantino? Cary Grant o Bruce Willis?

Condividi:

Per come la penso io, sul film western ho detto abbastanza. Non sono mai stato un critico cinematografico, in quanto ego sum un comune cittadino – un uomo della strada, come si diceva una volta – e ciò che scrivo è un riflesso del pensiero delle masse. Di quello che odo al bar, dai proiezionisti, dai discorsi con amici e colleghi, dalle osservazioni della gente (con una sola g) quando esce da una sala cinematografica o nei pressi dell’edicola per acquistare un film. Scrivere le recensioni prelevando dalle veline del produttore, oppure copia-e-incolla da dizionari ad hoc non è il mio mestiere: mi farebbe schifo. Un pezzo western riscuote attenzione proprio perché è improntato al buon senso, con note distintive – purtroppo va detto! – che potrebbero anche essere lette a velleità contronazionalistiche sul tipo: “Bravi perché siamo più amerikani di loro”. Se il western all’italiana (spesso ci mettono accanto spaghetti, in quanto alcuni s’identificano nel tipo di pasta) ha fatto scalpore anche negli Usa ci sarà una ragione. Non è che siamo più amerikani di loro, ma solo unicamente al fatto che noi conosciamo la loro non-storia, mentr’essi s’illudono di averne una. Stop.
Riallaciandomi ai western potrei collegarmi all’impomatamento del genere thriller-giallo. A me, sinceramente, Alfred Hitchcock non è mai piaciuto, preferendo il realismo pure violento e parolacciaio di Hollywood al patinato scenario del regista inglese. È meglio Quentin Tarantino che dirige uno straccione à la Bruce Willis, sporco, sguaiato e senza pretese cluneiane, che non un Cary Grant distinto, affascinante, elegantissimo e affettato (non per nulla ho citato Grant, assieme a Joseph Cotten, sono gli unici ‘europei’ della grande genìa di attori d’oltreoceano).

Leggi anche:  “Conoscevano la prigione di Moro”: la Procura di Roma apre un’inchiesta

Amo il cinema statunitense in quanto è uno specchio fedele della società del proprio Paese. Tutto ciò che a noi può apparire esagerato, retorico (a iniziare dall’amor di patria che in Italia è inesistente se non quando giocano gli Azzurri), elefantiaco – salti-auto decine e decine di metri da ponte a ponte; agente speciale che sgomina da solo centinaia di nemici; e per converso cento poliziotti necessari a catturare un solo uomo, ecc. – negli Stati Uniti è immagine della realtà quotidiana. È un cinema diretto a esprimere i modi di pensare, i punti di vista e le aspirazioni di milioni di spettatori. E questo sin da quando il produttore Carl Laemmle nel 1915, nel film a episodi The Clutch (La stretta) abbandonò l’universo irreale dei ricchi e condusse nei cinema “le miserie delle camere mobiliate, il monopolio dei trasporti marittimi, la battaglia del latte, i mercanti di cannoni, le truffe delle compagnie di assicurazione, i pirati del mondo della finanza e la venalità dei medici”1. Quello fu anche l’anno del crudo Nascita di una nazione di David Wark Griffith, che indusse Sergej Ejzenštejn, il regista de La corazzata Potëmkin (1925), ad affermare: “[…] tra i fattori più repellenti nei suoi film (e ci son tanti) vediamo Griffith come aperto apologeta del razzismo, erigendo un monumento di celluloide al Ku Klux Klan, e unendo il loro attacco ai neri in Nascita di una nazione. Tuttavia, nulla può togliere a Griffith il serto di uno degli autentici maestri del cinema americano”2. Griffith fece sì che Hollywood scavalcasse Roma, allora sugli scudi, per incassi, spettacolarità e fasto che perdurano sin ai nostri tempi.

Psycho (1960)
Psycho (1960)

Per cui ci riesce facile a capire come mai, Hitchcock, un europeo che non ha mai mutato le origini, abbia avuto successo stando in Amerika e non a Londra, ma mai riscuotendo l’amore degli adottanti. Non ha conquistato un Oscar vero, a riprova dell’antipatia amerikana nei suoi confronti.

Leggi anche:  “Found footage”, la nuova frontiera del cinema

A me non è antipatico – riconosco il suo ruolo come uno dei grandi del cinema – però, come già detto, mi trovo concorde con gli statunitensi: non lo gradisco affatto.

Negli anni Cinquanta-Sessanta – pieno fulgore dell’icona in oggetto – i cittadini degli Stati Uniti assommavano sui 152-203 milioni (ossia molti più dei 61 milioni d’italiani di oggi), con tutti i limiti culturali e d’impazienza degli amerikani, che ben conosciamo.

Dimodoché è assolutamente impossibile attenderci potesse riscuotere un’approvazione popolare un cultore della upper class e dei vizi ad essa congeniti, nonché i suoi protagoniste/i, sempre dotati di stucchevole buona educazione e idolatrati da una critica che scambiava le pellicole del Maestro di Leytonstone, per delle tele di Caravaggio. Già nella nostra Italia, Hitchcock divenne diffusamente noto solo grazie a 93 telefilm, da lui diretti e commentati (voce di Carlo Romano) nella serie televisiva L’ora di Hitckcock (1962-1965 di 50 minuti l’uno). Cosa salvare di lui? Presto detto: la storia del modesto musicista di Fubine (Alessandria), interpretato da Henry Fonda (Il ladro, 1956); Psycho (1960) con l’inarrivabile Anthony Perkins; e il misterioso Gli uccelli (1963).

In tv, dove Pretty Woman e i ‘cult’ edvigobanfalvareschi se li sballottano almeno un centinaio di volte l’anno fra reti Rai, commerciali e paesane – i film di Hitchcock ormai non li passano neppure accanto a mezzanotte: stanno percorrendo la china dell’altro émigré, Charlie Chaplin, pure lui senza Oscar veri. Il primo noioso, il secondo patetico: entrambi patrimonio immobiliare di scriventi per tessera di partito.

Note:
1 Georges Sadoul, Storia del cinema mondiale, Feltrinelli, Milano 1972, Vol I: Dalle origini alla fine della II guerra mondiale, p. 113.
2 “[…] among the most repellent elements in his films (and there are such) we see Griffith as an open apologist for racism, erecting a celluloid monument to the Ku Klux Klan, and joining their attack on Negroes in The Birth of a Nation. Nevertheless, nothing can take from Griffith the wreath of one of the genuine masters of the American cinema”; in Sergei Eisenstein, Film Form. Essays in Film Theory, A Harvest Book-Harcourt, Inc.-A Helen and Kurt Wolff Book, San Diego-New York-London 1949, p. 234.

Iscriviti al gruppo dei sostenitori per accedere ai contenuti extra

Leggi anche:  The Martian e la potenza hollywoodiana

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.