Alba, apogeo e occaso del campionato di calcio II
Il capitale finanziario affida la produzione sociale alla discrezione di un numero sempre più ristretto di grandi associazioni di capitale; esso separa dalla proprietà la direzione della produzione e socializza quest’ultima sino all’estremo limite compatibile con la sostanziale conservazione del sistema. […] Il capitale finanziario tende ad imporre un controllo sociale sulla produzione. Si tratta però di una socializzazione in forma antagonistica: “il dominio sulla produzione sociale rimane nelle mani di un’oligarchia1.
Alain Kit nel suo libro dedicato al calcio internazionale2, e la Rec.Sport.Soccer Statistics Foundation, marcano alla stagione 1929-30 la nascita del professionismo in Italia. Ciò che stupisce è che nel nostro Paese nessuna pubblicazione altamente specialistica ponga una cesura cronologica all’abbandono formale del dilettantismo; ma Antonio Ghirelli – in merito al varo del girone unico – afferma che “si dimostrò poi effettivamente, come un mezzo di selezione dei valori e di raffinamento del gioco”3. Sì, un reale miglioramento della tecnica ma, prima di tutto, un livellamento in alto di quelle società che in seguito monopolizzeranno il campionato: Internazionale, Juventus e Milan (o.a.). Un’egemonia dovuta al ruolo preponderante dell’apparato finanziario nella formazione dei grandi club, attraverso il quale le dirigenze cercavano, e cercano, di limitare o neutralizzare la concorrenza per assicurare l’immutabilità delle gerarchie. Poco importa che la concretizzazione non sia totale: il danaro non ha bisogno di ‘polonizzare’ il campionato – anzi! – la vittoria della squadra nazional-proletaria (infra), giustifica e legittima l’autorità delle SCF sull’insieme della produzione ‘scudettistica’nei periodi di transizione: 1968-70, 1973-76, o il grande interregno 1982-91: sette campioni diversi in nove tornei consecutivi; ed infine il tempo del millennio novo (1999-2001) dominato dalle Romane.
Analizzando le cause dello sviluppo e del regresso delle Nazioni, Alexander Gerschenkron indicò come fattore principale l’attiva partecipazione del capitale, formulando tre piani:
a) un Paese con enormi disponibilità private e forti istituti di credito, in grado di sostenere il progresso economico-industriale con fondi di famiglie notabili, prestiti e reimpiego dei guadagni;
b) un Paese con risorse inferiori, con privati di minori ricchezze, ma capace ad avviare il settore secondario a patto che si costituiscano banche per raccogliere capitali dispersi; e
c) un Paese povero a scarsissimi mezzi privati, e con imprese realizzabili unicamente dall’amministrazione statale o mediante il finanziamento da parte di banche investitrici oppure con aiuti diretti4.
Le tesi dello studioso russo, a un dipresso (conceda il lettore questo campo di applicazione) spiegano perfettamente il trend plurigenerazionale del campionato. Il 72,0% dei titoli conquistati dalle SCF5 (campo a) nel girone unico lo dimostra appieno. Estendendo, poi, il calcolo ai 112 campionati disputati, appuriamo che due sole città – Milano e Torino, pari allo 0,02% dei comuni d’Italia – si sono imposte nel 67,0% dei tornei6. Una sproporzione che fa impallidire anche il rapporto fra possidenti e terra in Brasile.
Mentre il campo b fa riferimento alle squadre nazional-proletarie (Bologna, Cagliari, Fiorentina, Genoa, Hellas-Verona, Napoli, Sampdoria e Torino), ed il c ai pionieri (Casale, Novese e Pro Vercelli) o alle provinciali – ‘di lusso’ e non – cui spesso non è mancata la mano salvifica di Comuni, enti, banche o sacrifici personali degli stessi tifosi. Se compariamo la predetta percentuale nell’alveo delle affermazioni internazionali (rectius: geopolitiche) registriamo un suo significativo abbassamento in relazione ai calciatori delle SCF schierati dalla Nazionale maggiore nelle sue affermazioni di prestigio. Alla fase finale dei quattro Campionati mondiali (1934, 1938, 1982 e 2010: 67 schierati) essa corrisponde al 58,2%; ai Campionati europei (1968: 22 s. ad eccezione del girone di qualificazione a/r) passa al 50%; alle due edizioni della Coppa internazionale7 (1927-30 e 1933-35: 56 s.) si conferma al 50,0%; ed alle Olimpiadi (1936: 14 s.) precipita al 28,6%. Se invece otteniamo dal novero delle Coppe europee per club organizzate da Uefa/Fifa (1955-2014) la percentuale delle SCF, le loro vittorie finali (37) rispetto al totale delle italiane (46) sono pari all’80,4%.
Una situazione che naturalmente paga di più nei club che nella Nazionale. Ma a che prezzo? In principio le SCF crearono il calcio mercato: “Tra i nuovi consiglieri della Lega [nel 1957, ndGA] figuravano in prima fila Andrea Rizzoli, Umberto Agnelli ed Angelo Moratti, tre padroni del mercato che già esercitavano, attraverso Milan, Juventus ed Inter, un monopolio tecnico e finanziario sul campionato e che, per il momento, erano d’accordo sull’opportunità di rimuovere l’ingombrante ostacolo dell’autorità centrale, al fine di eliminare tutte le restrizioni all’importazione di giocatori stranieri e al regime economico dei calciatori”8.
Una prassi che, col trascorrere degli anni, ha significato da parte della stragrande maggioranza dei club, non appartenenti al trust, uno spreco di immensi capitali convogliati in acquisti all’estero, a danno del settore giovanile, tradizionale punto di riferimento e fucina del nostro calcio: la macchina produttiva intesa a fabbricazione, commercio, distribuzione e sfruttamento di nuove leve e talenti resta un monopolio delle SCF, diretto e/o indiretto, ossia con satelliti posti in serie uguali o inferiori. In Spagna, per esempio, i grandi club almeno dispongono di formazioni B a cui, in un modo o nell’altro, è preclusa onestamente una ‘doppia’ serie A. Nel nostro Paese, invece, masse informi di scaturigini esotiche e ‘fenomeni’ invasero il nostro Paese, dopo che le SCF scremavano il meglio. L’indebolimento tecnico del campionato provocò una prima crisi – quella degli anni Cinquanta-Sessanta – le cui conseguenze furono di lunghissimo periodo. Quindici anni senza una Coppa dei campioni (1969-70/1983-84), dieci anni senza una Coppa delle coppe (1973-74/1982-83), due sole affermazioni in trenta edizioni di Coppa delle Fiere-Coppa UEFA (1955-58/1987-88); in tutti e tre i casi notiamo come soltanto la Juventus (rispettivamente: 1976-77, 1983-84 e 1984-85) – leader delle SCF –, e la nazional-proletaria Napoli (1988-89) siano state in grado di contrastare l’allora strapotere olandese, tedesco, britannico e spagnolo… per non parlare di una Nazionale che ha atteso ben 44 anni prima di riportare il titolo mondiale a casa (1982)… nessun’altra rappresentativa ha aspettato tanto per ritornare in carica.
E fu proprio a Stoccarda (17 maggio 1989) che il Napoli consegnò alla squadra azzurra il primo di quei trofei che riportarono di prepotenza l’Italia in Europa (coppa Uefa). Una settimana dopo il Milan conquistò la coppa dei Campioni a Barcellona. La stagione successiva (1989-90), lo storico trittico Milan-Sampdoria-Juventus – ribadito dai rossoneri in Coppa Intercontinentale e Supercoppa Europea – impose l’Italia quale potenza più forte al mondo in fatto di club. Seguirono altre imprese europee delle predette, e di Internazionale, Lazio e Parma a conferma di una ritrovata validità.
Però intanto sono trascorsi otto anni dall’ultimo titolo mondiale, mentre – in un momento in cui stentiamo anche a livello di coppe europee – a secco dalla stagione 2009-10, e mai così in basso nella classififica Uefa (non accadeva dal 1984)9 – assistiamo al penoso rito della transumanza, ossia – come afferma Alessandro S. Vergine: “la tattica di alcuni grandi calciatori stranieri che usano i ricchi club italiani come ideale piattaforma d’allenamento in vista di mondiali ed europei venturi […] per poi approdare a società ancor più munifiche e blasonate per vincere ‘veramente’ titoli nazionali e coppe che contano”10.