Memorie di un viaggio in Thailandia
Io non lo so perché sono andato in Thailandia. Sarei dovuto andare in Cambogia a intervistare alcuni “ex” khmer rossi, ma poi ci ho ripensato. Mi son detto, conducono la vita da signori in splendide ville dell’ovest del Paese, magari mi chiedono pure la percentuale per rilasciare un’intervista. Testo che si saranno fatti scrivere dagli “ex” colleghi studenti della Sorbona, forse oggi – come in Italia – clown pluricromatici da talk show, o nel migliore dei casi (per loro) ministri e sottosegretari; per tacere sui palloni gonfiati dei cosiddetti “intellettuali”. Inoltre avrei corso anche il rischio di pubblicare un’intervista, sempre la solita, chissà quante volte apparsa sulla stampa internazionale, magari “solamente” in lingua italiana. I motivi del viaggio nascono da una passeggiata che il 6 giugno 1997 stavo facendo per recarmi al lavoro. Passando accanto ad un’edicola mi saltò agli occhi la copertina di “Internazionale”, un settimanale romano che fa la rassegna dei migliori articoli apparsi all’estero. In copertina c’era scritto: Non dimenticare la Cambogia. Lo scrittore William T. Vollmann è andato nel paese khmer. Dove si stende ancora l’ombra di Pol Pot, che ha prosciugato la vita di un intero popolo. Acquistai il periodico. Tornato a casa mi lessi l’articolo. In box uno dei passi più orribili.
Fu allora che volli andare in Cambogia. Una decisione partorita dopo otto anni che, poi, all’ultimo momento ho spostato verso una delle patrie del Terz’Imper’Americano, allargato all’Estrem’Oriente1: la Thailandia. Oggi 67 milioni di abitanti, estesa 513.115 kmq: più di una volta e mezza l’Italia.
Sono partito il 10 agosto 2005 da Malpensa; ho fatto scalo a Francoforte sul Meno prima di arrivare a Bangkok (Krung Thep in lingua siamese). Dopo tre giorni trascorsi nella capitale ho preso l’aereo per Phuket. Il ritorno a Milano è iniziato il 21 agosto a tappe inverse.
Bangkok è una città nella quale stare il meno possibile, fra le più inquinate e congestionate al mondo. Forse 10 milioni di abitanti in un via vai di automobili, motorini (e sono una marea), tuk tuk (tricicli a mo’ di taxi), finti centri massaggi e quant’altro che possa ricordarvi Metropolis di Fritz Lang o Blade Runner di Ridley Scott. I tailandesi sono delle brave persone, anche perché vivono di solo turismo e ci perderebbero unicamente loro. Sostanzialmente la gente che sta veramente bene non è tantissima. Infatti gli stipendi oscillano tra gli 80 e i 400 euro di un manager. Le scene peggiori le ho viste a una ventina di chilometri dalla capitale, dove ho visitato il mercato galleggiante. Appena si esce da Bangkok, si prende una specie di statale e ci si comincia ad immergere nel verde. La prima cosa che si nota è il cambio di aria. In città la situazione è invivibile a causa del clima, dello smog e delle spezie che s’usano per condire il cibo, qui invece inizia a farsi spazio, pian piano, il tanfo. Dopo una mezz’ora d’auto, sono arrivato in un posto dove ho preso una barchetta condotta da uno del posto, e da lì ho iniziato a navigare tra queste paludi, quindi immaginate l’odore che c’era… una puzza allucinante, proprio pestilenza di malsano.
Mi sembrava di essere il Capitano Willard in missione sul Mekong alla caccia del Colonnello Kurtz. Man mano che le calde gocce d’acqua sporca lambivano le mie labbra come sputi di un passante distratto, più capivo cos’era l’orrore. Io ero Benjamin Willard!
Non le istantaee di vari Buddha sdraiati, non le immagini di bellezze locali, ladyboy e cose peggiori e maggiormente indefinibili. Era il pendolio dei remi schizzanti a suggerirmi di fotografare l’orrore. Fuggivo il loro immergersi nel putrido liquido scrutando l’orizzonte, e la memoria correva ai palazzi senza senso nell’umidità devastante della grigia cappa venefica. L’imitazione degli Stati Uniti: un’inane Philadelphia, un’assurda San Francisco, un’impossibile New York, il loro cancro espiantato e importato qua. Il marciume che si trasforma in fetore, e il fetore incapsulato in fiale di disperazione. Il commercio dei bambini, pasto naturale dell’uomo civilizzato – sottospecie dell’Homo occidentalis mirabilmente descritto da Marek Glogoczowski2 – abbia egli il volto anonimo del nostro “perbene” vicino di casa, o quello inespressivo di Bush jr o quello eternamente in sorriso dell’Ultimo. “L’orrore… l’orrore…”, diceva Walter Kurtz.
In quel momento ho compreso. Non sono andato in Cambogia, solo perché là l’orrore è stato eternato nei musei e nei libri di storia. Qui, in Thailandia, l’orrore si vive ogni giorno nelle facce della gente, nei cartelloni pubblicitari della Coca Cola, nel finto cibo dei McDonald’s.
Altro orrore è stato Phuket, una delle zone più colpite dallo tsunami, ma vi posso dire che in soli otto mesi hanno ricostruito quasi tutto. Ho parlato con una guida italiana che vive là da vent’anni, e che il 26 dicembre 2004 era su una barca con cinquanta turisti… credetemi: ad ascoltare il racconto di quel giorno, c’era da piangere.
La sera, tornato a Bangkok, nella camera d’albergo ho vomitato.
“L’odore dolciastro dei teschi era nauseante. Oltre lo stupa di teschi che si ergeva alto col suo tetto a pagoda bianco e giallo, si stendevano le fosse comuni. Non tutte erano state aperte […].
La stanza odorava di urla. Al muro c’era una fotografia di un cadavere steso sul pavimento della stessa stanza, le gambe sotto la sbarra ruotata verso l’esterno, e pozze di sangue. Nella stanza accanto, di nuovo la branda con il morsetto, macchie di sangue nere sul pavimento, al muro la foto di un cadavere annerito sullo stesso letto, una sedia capovolta accanto, luce echeggiante di biancore. Quel posto si chiamava Tuol Sleng. Un tempo era stato un liceo […].
Un’altra rete, sfondata, una catena rugginosa, brandelli di stoffa, la scatola di munizioni che serviva da bugliolo (se lo rovesciavi ti facevano pulire il pavimento con la lingua), la morsa, il filo elettrico. Palme attraverso la finestra.
Un’altra. Un’altra. Al muro la foto di un cadavere nero e gonfio sul materasso, un sarong accanto, il volto putrefatto atteggiato a un urlo. Sul letto un attrezzo per dare botte, simile a un trapiantatoio da giardiniere. Una mosca ci camminava sopra, nel punto dov’era raggrumato qualcosa di nero.
La stanza seguente era piena di foto di persone – fra loro molte donne con figli – in posa frontale, con dei numeri appuntati sopra, gli occhi spalancati, lo sguardo fisso, qualcuna con già la corda attorno al collo. – Il ragazzo guardava fisso davanti a sé, le braccia dietro la schiena, dietro di lui un altro prigioniero chino. – L’uomo aveva uno sguardo feroce. – L’uomo era in mezzo a una massa di persone con le braccia levate in alto e volgeva lo sguardo lontano. – Il ragazzo fissava davanti a sé e il sangue gli occludeva la bocca. – Nelle foto c’erano file di teschi dentro la fossa come noci di cocco, teschi a plotoni, cadaveri stesi su quei pavimenti a scacchi, ciascuno col suo numero appuntato sul petto morto”.