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Tamara de Lempicka: fra nobiltà declassata, arte e amori saffici

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“Silhouette decisamente parigina. Due occhi chiari, penetranti, capelli biondi e naso greco leggermente ricurvo, labbra color carminio e unghie color ocra rossa. Altezza considerevole per una donna. Vestiti da favola, pellicce costosissime, la sua sola presenza suscita curiosità”.

Questa la descrizione in un’intervista del 1932 pubblicata dal giornale polacco Swiat dell’audace ritrattista che scandalizzò gli anni Venti e Trenta, Tamara Rosalia Gurwik-Górska (1898-1980) meglio nota con lo pseudonimo Tamara de Lempicka e il cui successo si riverbera sino ai giorni nostri. Una donna ribelle e disinibita, così amava definirsi, vissuta fra gli agi fino alla rivoluzione d’ottobre ed inizialmente avversata dai critici dell’epoca – più per l’eccentrica personalità che per l’innovativa inclinazione artistica. Nel 1914, poco prima dello scoppio del conflitto fra Germania e Russia, Tamara Górska era giunta dalla città natale Varsavia presso la ricca zia a San Pietroburgo, ove s’innamorò del giovane ed ambitissimo avvocato Tadeusz Lempicki; si sposarono con una cospicua dote due anni dopo, nella Cappella dei Cavalieri di Malta. Il loro idillio fu però interrotto dall’inizio della guerra civile con l’arresto del marito, militante controrivoluzionario collegato all’Ochrana e ricercato dai bolscevichi: per liberarlo divenne l’amante del console svedese di Pietrogrado, assieme al quale si recò a Copenaghen in attesa che Tadeusz la raggiungesse. L’inverno della rivoluzione fuggirono assieme a Parigi, meta di numerosi esuli russi, intellettuali, ex ufficiali e nobili decaduti che conducevano le loro esistenze nel malinconico rimpianto della perduta patria. Anticonformista e spregiudicata, l’affascinante artista non poteva certo rivestire il ruolo dell’avvilita emigrante, bensì – da donna emancipata qual’era – prese a dipingere, coltivando la passione per l’arte che nei viaggi in Italia aveva scoperto grazie alla nonna Clementine. Della Russia conservò le influenze dell’estetica decadente e simbolista ispirando però la sua condotta esistenziale a ben altro stile: “Le donne sono le Erinni, le Amazzoni; le Semiramide, le Giovanna d’Arco, le Giovanna Hachette; le Giuditta e le Caroline Corday; le Cleopatra e le Messalina, le guerriere che combattono più ferocemente dei maschi, le amanti che incitano, le distruttrici che spezzando i più fragili contribuiscono alla selezione, mediante l’orgoglio o la disperazione, la disperazione che dà al cuore tutto il suo rendimento” scrisse Valentine de Saint-Point nel 1912. Dell’opposizione a patetici sentimentalismi e sterili fedeltà eterne la pittrice ne fece un vanto, concedendosi impetuosi amori con donne ed uomini molto spesso ritratti nelle proprie opere: a questo proposito ricordiamo i nudi della bellissima prostituta e modella Rafaëla, i ritratti di Madame P., della cantante bretone Suzy Solidor ed il famoso dipinto in cui la duchessa De la Salle, dal cui sguardo traspare tutta la sottile ambiguità, fu effigiata come un’amazzone.

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Innalzata ad icona dell’Art Deco, diede forma attraverso la tela ad immagini rappresentative di un’intera epoca: nudi e ritratti dell’alta società, intellettuali, aristocratici in fuga e nobili spodestati, eseguiti secondo le tecniche espressive del cubista Lothe e del simbolista Denis, la rilettura dei classici e l’essenza decorativa del dipinto. Una gamma ridotta di colori, declinati in ogni loro sfumatura e stemperati nella plasticità scultorea dei grigi e l’esaltazione della geometria solida dei corpi sono gli elementi distintivi delle opere degli anni Venti, come il Ritratto di André Gide (1924-1925) con le oscure fessure degli occhi a metaforica equivalenza della cecità descritta in un racconto dello scrittore. Agli stessi anni appartiene il ritratto del conte Fürstenberg-Herdringen in cui emergono le influenze italiane degli stili del manierismo che la pittrice aveva studiato proprio a Firenze, nonché il superbo esempio di elaborazione geometrica secondo i dettami di Lothe nel Gruppo di quattro nudi, il gineceo di sinuose curve femminili ispirate al Bagno turco di Ingres. Anni turbinosi per l’artista: a Parigi, immersa nell’atmosfera bohème di Montparnasse, frequentava locali notturni dedicandosi a molteplici relazioni amorose che non incontravano certo l’approvazione del marito. Nel frattempo s’intensificava la sua partecipazione ai Salon parigini in cui esponeva già dal 1922 (Salon d’Automne, Salon des Indépendants). Conobbe il celebre dongiovanni e drammaturgo Gabriele D’Annunzio e si recò al Vittoriale nel 1927 con l’intenzione di ritrarlo, ma sia il dipinto che la relazione naufragarono nel nulla: non molto tempo dopo divorziò da Lempiski che la lasciò per una donna polacca conosciuta in viaggio. Fu così che rimase incompiuto il dipinto raffigurante Tadeusz, privo della mano dove sarebbe stata dipinta la sua fede nuziale. Tamara, nonostante le frequenti crisi depressive, non si diede per vinta ed intraprese una relazione sentimentale con un ricco collezionista delle sue opere: il barone Kuffner, nobile austro-ungarico e futuro secondo marito, grazie al quale disse addio alle ristrettezze economiche dei primi anni d’esilio. Ispirandosi a Pontormo compose nuove forme, attraversate da un movimento ritmico espresso dalle spirali ondose dei capelli, dalle vesti drappeggiate (Ritratto di Nana de Herrera, 1929) ed oltre al più noto, a bordo di una Bugatti verde, si rappresentò nel voluttuoso autoritratto intitolato Andromeda. Erotismo, sublimazione, ardite tecniche di deformazione dell’immagine, un inconfondibile stile chiaro e lineare contraddistinguono la sua arte. Fra le copiose opere ve ne fu specialmente una che destò da subito notevole interesse: il ritratto del granduca Gavriil Konstantinovič (1926), pronipote di Konstantin Pavlovič, fratello dello zar Nicola I. L’opera suscitò scalpore ed un inevitabile vespaio di plausi e critiche, data l’identità e la storia del soggetto ritratto: il granduca, Presidente dell’Accademia di Belle Arti di San Pietroburgo, fu salvato dalla fucilazione dallo scrittore Maksim Gor’kij e fuggì assieme alla moglie Anastasija Rafailovna Nesterovskaja in Finlandia, prima di stabilirsi a Parigi. Le memorie di quest’ultima furono riportate dalla scrittrice ed esule russa Nina Berberova nella Storia della baronessa Budberg:

“Gor’kij ci accolse affabile e ci offrì una grande stanza con quattro finestre, piena zeppa di mobili. Lì ebbe inizio la nostra nuova vita. Io uscivo raramente, mio marito mai. Sedevamo a tavola con Gor’kij e i suoi invitati. Tra gli ospiti c’era di tutto; vi si potevano incontrare trafficanti ben noti e bolscevichi eminenti. Da Gor’kij incontrai Lunačarskij e la Stasova; veniva spesso anche Saljapin. Il più delle volte era gente che gioiva del nostro dolore e si dispiaceva per le nostre gioie. La loro compagnia ci pesava. (…) L’11 novembre del 1918 alle cinque del mattino andammo in stazione, con mio marito ancora sofferente, la cameriera e il bulldog da cui non ci separavamo mai. Non aprimmo bocca per tutta la strada; eravamo troppo agitati. Alla biglietteria chiesi tre biglietti per Beloostrov. Con mio grande stupore li ottenni senza difficoltà. Tuttavia pensai che fosse troppo presto per rallegrarmi. (…) Il vagone si riempì di soldati ed io temevo fossero stati inviati a uccidere mio marito. Quei momenti furono forse tra i più angoscianti. Arrivammo a Beloostrov. Aspettammo più di un’ora al buffet. Finalmente ci chiamarono. «Dov’è il suo passaporto?» domandò il commissario. «I nostri passaporti sono rimasti alla Ceka» risposi. Finché non si collegò per telefono con la Ceka, pensai che tutto fosse perduto, che ci avrebbero rimandato indietro o arrestato. Furono momenti terribili. Poi ci fecero passare in due altre stanze, ci ordinarono di spogliarci e ci perquisirono, controllarono i bagagli e finalmente ci diedero il visto per entrare in Finlandia. Non c’erano cavalli: mio marito fu sistemato su un carretto tirato a mano. Arrivammo al ponte: dal nostro lato c’erano i bolscevichi, dall’altro i soldati finlandesi. Dopo aver scambiato qualche frase, i finlandesi presero i nostri bagagli. In quel momento il severo commissario che poco prima ci aveva quasi maltrattato, mi si avvicinò e bisbigliò: «Molto lieto di esserle stato utile…». Rimasi di stucco. Il commissario sparì. In quel momento pensai che non si fosse collegato affatto con la Ceka, che ci avesse lasciato partire senza permesso, e che avesse finto quelle maniere sgarbate”.

Nella Ville Lumière Vladimir Kirillovič, discendente di Alessandro II, gli conferì il titolo di Altezza Imperiale in seguito contestato dai membri dell’Associazione della famiglia Romanov. Morì nel 1955 e fu sepolto nel cimitero di Sainte-Geneviève-des-Bois. A partire dal 1933, con l’aggravarsi della depressione che l’affliggeva, la Lempicka rivolse la sua attenzione verso emarginati, derelitti e soggetti religiosi: fra questi, San Giovanni Battista, Giovanna d’Arco mentre sente le voci (esposti al Salon de Tuileries), la lacrimosa Madre Superiora (1935); nell’estate del 1939 i coniugi Kuffner lasciarono l’Europa devastata dalla guerra per approdare in America, stabilendosi in seguito a New York. Ma oltreoceano l’appassionata forza espressiva e l’ispirazione che l’avevano accompagnata nelle frenetiche notti parigine scomparvero, lasciando il posto alla freddezza imperturbabile dei quadri di genere più astratto eseguiti negli anni Quaranta e Cinquanta, male accolti dalla critica.

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Smise di dipingere nel 1962, in seguito all’insuccesso dell’esposizione alla Jolas Gallery di New York e, ormai vedova, si trasferì in Messico, nella “città dell’eterna primavera”, Cuernavaca, dove fu assistita dallo scultore Victor Manuel Contreras fino alla fine dei suoi giorni, nel 1980. Le ceneri della pittrice furono disperse, come suo desiderio, dalla figlia Kizette in cima al cratere del vulcano Popocatepetl. Nel 1974 la rivista “Auto-Journal” scrisse: “Indossa guanti e casco di pelle. È inaccessibile: una bellezza fredda ed irritante dietro la quale s’intuisce un essere fantastico: questa donna è libera!”. Libertà: condizione essenziale, congeniale ed identificativa dell’impetuosa artista, inseparabile dalla sua automobile, definita “la donna d’oro” da D’Annunzio o “la dea dagli occhi d’acciaio” dal New York Times e che inseguì sempre il desiderio di un’esistenza senza limiti.

Flora Liliana Menicocci

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