Approaching the Unknown, alla conquista di Marte
Il tema è ancora una volta la nuova frontiera dei viaggi nello spazio: il pianeta Marte. In un futuro prossimo o lontano, sarà possibile per l’uomo calpestare il suolo marziano? E quali sfide estreme dovrà affrontare il primo uomo inviato sul pianeta rosso? Non è un argomento nuovo per la fantascienza cinematografica e letteraria; da oltre un secolo si prospettano scenari molteplici per la conquista di un avamposto umano e l’inizio dell’esplorazione diretta. Approaching the Unknown, opera prima di Mark Elijah Rosenberg (2016), non è una favola intrisa di buonismo. Come insegna il Maestro Stanley Kubrick, lo spazio siderale è sinonimo di privazione e assenza, interminabili silenzi e sacrificio. La solitudine incessante di duecentosettanta cicli giornalieri è soltanto un ricordo sfuocato delle giornate assolate trascorse sulla Terra. All’interno del sofisticato veicolo progettato per coprire la distanza di 75 milioni di chilometri – nel punto in cui l’orbita di Marte è in perielio, ossia più vicino al Sole – il Capitano William Stanaforth (Mark Strong) sperimenta il funzionamento del reattore di sua invenzione, uno strumento in grado di separare idrogeno e ossigeno da sabbia compressa e terriccio per restituire acqua. La riuscita della sua impresa dipende proprio dal delicato meccanismo che permette di compiere una scissione e ricombinare gli elementi chimici in modo da ottenere il composto essenziale di ciascuna forma di vita: senza l’acqua, una volta terminate le esigue scorte, il fallimento della missione sarebbe inevitabile. Il reale obiettivo di Stanaforth, come rappresentante del genere umano, è dunque la sopravvivenza sul pianeta incontaminato? Per tutti coloro che seguono in diretta il viaggio a bordo della navicella Zephyr, personale tecnico e appassionati da ogni angolo del globo terrestre che inviano videomessaggi di incitamento al Capitano, la riuscita della prima missione su Marte è imprescindibile dalla sopravvivenza stessa dell’uomo.
“Perché lasciarsi dietro questa vita e morire su un pianeta sterile?”
Eppure, il significato più profondo e il senso dell’impresa solitaria di Stanaforth potrebbero essere differenti. L’astronauta scoprirà che il fine ultimo della propria esperienza trascende la sua stessa vita, intesa come sussistenza biologica. Vivere o morire non cambia in alcun modo il valore del suo gesto: se riuscirà a percorrere l’intera rotta e compiere l’atterraggio sul suolo marziano, sarà una conquista che lo renderà immortale. Anche se ciò dovesse comportare il sacrificio più alto.

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