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Caso Moro: una verità che scotta

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Desecretare migliaia di documenti custoditi nell’archivio del Senato – e tuttora inaccessibili – che riguardano i 55 giorni più oscuri della Repubblica: pagine della Storia d’Italia che, a trentasei anni di distanza, attendono di essere raccontate per la prima volta. Dalla strage del 16 marzo in via Fani al ritrovamento sconvolgente del cadavere dell’onorevole Aldo Moro, il 9 maggio 1978 – nel bagagliaio di una Renault 4 rossa abbandonata fra via delle Botteghe Oscure (sede del Pc) e piazza del Gesù (sede della Dc). In seguito alla nuova indagine aperta dalla Procura di Roma, i deputati del Partito democratico Marco Carra e Gero Grassi hanno lanciato un appello al neo governo Renzi: “liberalizzare tutti gli atti, serve una svolta”. Sarà l’occasione giusta per dissipare il mistero del maggiore omicidio politico – insieme a quello di JF Kennedy – del XX secolo? Delitti mai sommersi dall’oblio. Ricordiamo alcune “strane” circostanze che si verificarono all’epoca del sequestro. Il 16 marzo, dalle ore 9 a.m. le linee telefoniche subirono una totale interruzione nel quartiere Trionfale a Roma: pochi minuti dopo, un commando armato delle Brigate Rosse faceva irruzione all’incrocio di via Fani con via Stresa e – lasciando a terra senza vita cinque uomini della scorta – caricò a forza il presidente della Democrazia Cristiana a bordo di una Fiat 128 bianca. Nessuno dei residenti riuscì a chiamare la polizia durante la pioggia di proiettili: il segnale era assente.

Il più è fatto”, commentò il medesimo giorno Licio Gelli durante un incontro confidenziale all’hotel Excelsior. Nella suite 127 era presente anche la donna del Gran Maestro della Loggia Propaganda due (P2), Nara Lazzarini – che, quando Moro fu rapito, l’udì pronunciare quella gelida frase1.

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Ulteriori improvvisi black-out dei telefoni si manifestarono nel momento in cui la Digos cercò di risalire alla provenienza delle chiamate effettuate dai brigatisti alla redazione de Il Messaggero. Non ne fu mai individuata l’origine: ai piani alti della Società italiana per l’esercizio telefonico (Sip) vi era il direttore generale Michele Principe, iscritto alla P2 con la tessera 829 – come si venne a sapere in seguito. Addirittura, a condurre l’indagine al centralino della Sip fu un altro uomo della Loggia di Palazzo Giustiniani – il commissario Antonio Esposito, tessera 251. Nei giorni anteriori al rapimento, lo statista scudocrociato già temeva per la propria incolumità – e per la sua famiglia. Durante il viaggio ufficiale negli Stati Uniti d’America, la minaccia giunse dai vertici: “Onorevole Moro, lei deve smettere di perseguire il suo disegno politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui o lei smette di fare questa cosa o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere” 2. Moro non rivelò il nome dell’intimidatore, ma riferì l’accaduto alla moglie Eleonora – spirata quattro anni fa. Successivamente, furono blindate le finestre dello studio in via Savoia.

La Renault 4 in via Caetani, 9 maggio 1978
La Renault 4 in via Caetani, 9 maggio 1978

I nemici non si annidavano soltanto Oltreoceano. Il 29 settembre 1977 era arrivato a Roma l’ufficiale del KGB Feodor Sergey Sokolov: per mesi, l’agente sovietico condusse presso l’ateneo romano indagini sul conto di Moro, frequentando le lezioni di Diritto e Procedura penale tenute dall’onorevole all’Università La Sapienza. Intanto, la brigatista Anna Laura Braghetti entrava in possesso dell’appartamento in via Montalcini 8.

A sua volta, Sokolov era pedinato dal SISMI3 che puntualmente informava il ministro dell’Interno, Francesco Cossiga. L’interesse sempre più inquisitorio del moscovita suscitò seria preoccupazione: il presidente della Dc ed un suo allievo, Franco Tritto, si convinsero che stesse cercando informazioni per colpirlo. Fu richiesta invano un’auto blindata dal caposcorta, Oreste Leonardi.

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Il 15 marzo Cossiga rassicurò Moro attraverso il capo della polizia, Giuseppe Parlato. Non vi era pericolo di azioni terroristiche: le ultime parole famose.“Mai ricevuto una cosa del genere. Mai letto in vita mia”4 affermò il ministro dell’Interno di fronte ai documenti dei servizi relativi ai pedinamenti di Sokolov. Inadempienze, omissioni mirate, losche trame internazionali preludevano all’imminente tragedia.“Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibilmente l’ordine di esecuzione”, scrisse5 dalla “prigione del popolo” Aldo Moro – in una lettera recapitata il 5 maggio alla consorte. Numerose missive testimoniano l’angoscia della reclusione. Ma cos’avvenne all’esterno dell’appartamento in via Montalcini 8? È segreto di Stato.

Note:
1 Aldo Balzanelli, Parla l’amante di Gelli: “quando presero Moro, Licio disse: il più è fatto”, La Repubblica, 22 ottobre 1987.
2 Commissione Moro, Volume V, pp. 5-6. Citata da Sergio Flamigni in La tela del ragno, Kaos, Milano 2010, p. 84.
3 Cfr.: Ferdinando Imposimato, I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia, Perché Aldo Moro doveva morire? La storia vera, Newton Compton 2001, pp. 65-78.
4 Audizione di Francesco Cossiga alla Commissione Mitrokhin acquisita dal ROS di Roma nel rapporto 310/12 di prot. 14 luglio 2004, diretto al Sostituto Procuratore Franco Ionta, pp. 728-730.
5 Gustavo Selva, Eugenio Marcucci, Aldo Moro: quei terribili 55 giorni, Rubbettino, Catanzaro 2003, p. 401.
Flora Liliana Menicocci

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2 commenti su “Caso Moro: una verità che scotta

  1. Dietro il terrorismo mafioso e dietro il terrorismo politico vi era lo
    stato mafioso, vi erano i servizi segreti deviati, vi era una trattativa con il crimine, vi era chi aveva
    interesse a distogliere l’attenzione del popolo sovrano dal magna magna
    generale delle caste e delle corporazioni mafiose e corrotte.
    ‘Questo Paese non si salverà,
    la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera,
    se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere.’
    Aldo Romeo Luigi Moro – (Maglie, 23 settembre 1916 – Roma, 9 maggio 1978)

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