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Le elezioni prefasciste (1861-1921)

La condanna dei giudici della Consulta all’infame e non democratica legge n. 270-21.12.2005 quale anticostituzionale, c’induce a una rilettura dei vari dispositivi elettorali portati avanti nel nostro Paese.

Innanzitutto ciò che ferisce l’occhio dello studioso è che la legislatura inaugurale del Regno d’Italia non sia considerata la I, bensì l’VIII! Ciò perché i Savoia vollero ‘stilare’ i Parlamenti dall’Unità d’Italia sino al 1939, in continuità con quelli eletti dalle prime sette legislature del Regno di Sardegna (1848-1860). L’Italia, a loro parere non era altro che l’espansione territoriale del Piemonte. Vittorio Emanuele II non volle mutare l’ordinale in I, pesantissimo imbarazzo che il figlio Umberto cercò di cancellare definendosi I, e non II. In seguito l’altro V.E. scelse l’ordinale III e non I, in onore alla schiatta, e in indifferenza al Paese. Le prime elezioni si svolsero il 27 gennaio ed il 3 febbraio 1861, poco dopo il plebiscito in Marche e Umbria (4-5.11.1860). Ai plebisciti erano stati ammessi i maschi 21enni che godessero dei diritti civili; alle elezioni del ’61 in conformità alle leggi sarde avevano diritto al voto i maschi 25enni, non analfabeti, e contribuenti per un censo annuo di imposte dirette d’almeno lire 40 (ca. € 151). Del requisito censitario erano esentati i componenti delle Accademie, i professori, i funzionari e gli impiegati civili e militari in servizio o a riposo, i membri degli ordini equestri del Regno, i laureati e altri.

Le elezioni si svolsero, per giunta, in condizioni diverse. In Sardegna fu conservato il voto agli analfabeti già elettori: e qui si riscontra una fra le tante sospette incongruenze. Per tali motivi il diritto di voto lo si riconobbe all’1,9% degli abitanti dell’Italia del Nord, all’1,6% di quelli del Centro, all’1,9% di quelli del Sud, ma in Sardegna al 3,5%.

P.L. Ballini, in un suo saggio1 fa riferimento a due storici. “A un’evidente sperequazione fiscale, oltre che alla struttura della proprietà, va attribuito il fatto che in Sardegna, ad esempio, si contassero 35 elettori per 1000 abitanti, più che in ogni altra regione del Regno” (Pasquale Villani)2. Per cui, è palese come la Sardegna, quale dépendance della dinastia, dovesse avere un peso maggiore delle regioni ‘conquistate’ con i plebisciti.

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Una élite, che dimostrava come, ad unità compiuta, la partecipazione alla vita pubblica avvenisse su basi non già più estese, bensì assai più ristrette di quanto non fosse avvenuto nel periodo di formazione, delle lotte, dei plebisciti: perché in tutta la Lombardia v’erano, nel 1870, 68.371 elettori iscritti, ma quando s’era trattato, nel ’48, di votar la fusione col Piemonte, erano stati 661.626; nell’Emilia, gli elettori iscritti sommavano ora a non più di 42.248, ma quando s’era trattato del plebiscito per l’annessione, avevan votato ben 426.764, e così via” (Federico Chabod)3. La malafede di quella famiglia francese, per utilizzare un consenso elettorale creato ad arte, è visibile in tutta l’organizzazione farsesca delle consultazioni.

18 febbraio 1861. Apertura del primo Parlamento d'Italia a Palazzo Carignano (www.museotorino.it)
18 febbraio 1861. Apertura del primo Parlamento d’Italia a Palazzo Carignano

La percentuale elettori/abitanti, fra le L. VIII (1861) e XIV (1880), si stabilizzò attorno al 2,0. Però è bene fare attenzione che la percentuale dei votanti al primo scrutinio si mantenne su cifre amerikane, toccando il minimo storico nell’XI L. (1870) con il 45,5. O meglio l’‘intero’ popolo italiano – all’indomani della breccia di Porta Pia – ‘elesse’ il Parlamento con soli 177.339 voti validi su 240.974 espressi!

La situazione restò tale sino al 24.9.1882, quando passò il TU n. 999 che stabilì a 21 anni l’età per l’elettorato attivo; fu mantenuto il requisito dell’analfabetismo; il censo non costituì più il titolo principale per l’ammissione al voto. In base al TU gli elettori passarono da 621.896 a 2.017.829, pari al 6,9% della popolazione. Negli anni precedenti gli elettori iscritti per censo erano quasi l’80%; dopo l’82 gli elettori iscritti per le capacità erano il 65,3%, e si abbassarono al 34,7 i censitari. Il 53,3% degli elettori restava concentrato in Piemonte, Lombardia e Liguria (27,4% degli abitanti del Paese): in totale N 53,1%, C 15,7%, S 21,3%, Is. 9,9%. Nel complesso – a causa delle forze lavoratrici nelle regioni più industrializzate – la chiamata maggiore alle urne, contribuì ad estendere le basi dello Stato e a favorire un’“evoluzione di un certo tipo del movimento operaio in Italia nel decennio che precede il Congresso di Genova” (Alberto Caracciolo)4 di fondazione del Psi. In questo periodo – L. XV (1882)-XVIII (1892) – l’astensionismo si mantenne però elevato con un minimo dei votanti nella XVII L. (1890), 53,7%.

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La crescita degli elettori dall’82 al ’92, fu arrestata dal presidente del Consiglio, Francesco Crispi, col beneplacito dei Savoia (l. 11.7.1894 n. 286). I votanti passarono da 2.934.445 a 2.120.185, dal 9,4% del ’92, al 6,7%. La legge era diretta a rafforzare il governo e colpire l’opposizione. Gli elettori iscritti – nelle liste del ’95 rispetto a quelle del ’90 – per capacità diminuirono del 24,9% mentre quelli per censo del 15,8%. In totale si cancellarono 623.473 nomi, appartenenti a: istruzione elementare (maestre/i portatori di idee sovversive), “cittadini che pagano una pigione”, affittuari di fondi rustici, ecc. Su questi fondamenti si svolsero le elezioni dalla XIX (1895) alla XXIII L. (1909): con una punta massima nel 1909, pari al 65,0% degli elettori aventi diritto (pure a causa di un costante allentamento del non expedit): N 56,5%, C 16,4%, S 19,1%, Is. 8,0%.

Con le ll. 30.6.1912 n. 665 e 22.6.1913 n. 648 (poi TU 26.6.1913 n. 821) si chiuse una fase decisiva: fu approvato il suffragio universale maschile. Le nuove disposizioni, auspicate dal presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti – conscio della forza dei movimenti operaio e cattolico – estendevano il voto ai maschi di oltre 30 anni, anche se analfabeti, e fra i cittadini dai 21 ai 30 che fossero in possesso dei requisiti stabiliti dalle leggi precedenti e a chi avesse prestato servizio militare per un certo periodo. Coloro che avevano diritto al voto nelle elezioni per la XXIV L. (1913), passarono da 2.930.473 (1909) a 8.443.205; dall’8,3 al 23,2% della popolazione, con un aumento che favorì soprattutto il Meridione: N 45,8%, C 17,3%, S 24,4%, Is. 12,5%.

Le elezioni per la XXV L. (1919), videro introdotto per la prima volta il sistema proporzionale (l. 15.8.1919 n. 14019). Si univa il riconoscimento del voto ai maschi che avevano compiuto i 21 anni al 31.5.1919 e a coloro che avevano prestato servizio nell’esercito mobilitato (TU 2.9.1919 n. 1985). Gli elettori passarono dai suddetti a 10.239.326: N 43,6%, C 16,7%, S 26,2%, Is. 13,5%. Fu una svolta epocale in quanto favorì la formazione del sistema di partiti così come lo conosciamo oggi. Nelle elezioni per la XXVI L. (1921) gli elettori giunsero a 11.447.210 (28,7% degli abitanti). La frequenza alle urne nell’ultimo periodo prefascista fu: 60,4% (1913); 56,6% (1919); 58,4 (1921).

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La legislazione elettorale restò in vigore sino al 1923, quando fu mutata dalla ‘legge Acerbo’ (18.11.1923 n. 2444). Invece con la l. 17.05.1928 n. 1019 seguita dal TU 2.9.1928 n. 1993, Art. 2, s’iniziò a parlare del voto a cui avevano diritto i 18enni, “se ammogliati o vedovi con prole, o li compiano non più tardi del 31 maggio dell’anno in cui ha luogo la revisione delle liste” (XXVIII L.: 1929).

Tabella

Note
1 Pier Luigi Ballini, Le elezioni politiche nel Regno d’Italia. Appunti di bibliografia, legislazioni e statistiche (pubblicato sul N. 15/Luglio 1985, dei benemeriti «Quaderni dell’Osservatorio Elettorale», Regione Toscana, Firenze, pp. 141-220.
2 Ivi, p. 166.
3 Ivi, p. 167.
4 Ivi, p. 170.
Giovanni Armillotta

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