Ex Europa socialista: perché calcio di pari livello ma con pochi titoli?
Nel periodo della guerra fredda, per quale motivo le squadre dei Paesi socialisti – a parità di livello tecnico – conquistavano meno titoli rispetto a quelle degli Stati capitalisti? È una domanda che oggi gli appassionati dai 40 in su si pongono. È noto che quando nel sorteggio-coppe capitava ad un’italiana d’incontrarsi con un club dell’Est, l’impegno non era auspicabile e un sacro terrore d’eliminazione – spessissimo confermato – pervadeva le nostre compagini. Dicasi lo stesso per la Coppa del mondo o nel torneo continentale, ove l’Unione Sovietica fu la prima squadra ad aggiudicarselo nel 19601. Del resto l’undici del Cremlino, al momento dell’estinzione dell’Urss (25 dicembre 1991), vantava contro l’Italia – allora al vertice con tre titoli mondiali, al pari di Brasile e Germania Federale – un bilancio positivo2 con 4 vittorie, 5 pareggi e 2 sconfitte, e supremazia pure con Uruguay (6-0-1) e Francia (4-6-2). Inoltre il 7 novembre 1990 – ultima sfilata dell’Armata Rossa per la Rivoluzione d’Ottobre – lo Spartak Mosca eliminò ai rigori il Napoli di Maradona dalla Coppa dei Campioni.
Inoltre ricordiamo gli Ungheresi vicecampioni del mondo nel ’54 nella maniera che sappiamo, i Cecoslovacchi vice nel ’62, gli Jugoslavi quarti nel ’62, la Polonia terza nel ’74 e nell’82, non dimenticando gli stessi Sovietici, terzi nel ’66. Più i vicecampioni d’Europa di Urss (64, 72 e 88) e Jugoslavia (1968). Aggiungiamo le qualificazioni alle fase finali dei mondiali da parte di Bulgaria (62, 66, 70, 74, 86), Romania (70, 90) e Germania Democratica: quest’ultima sconfisse nel ’74 ad Amburgo (gruppo A) la Germania Federale (Sparwasser al 77’), padrona di casa e 15 giorni dopo campione del mondo. L’unica a mancare all’appello d’una fase finale è stata l’Albania. Però, con una popolazione da sempre inferiore a quella della provincia di Roma, e la fattiva presenza a livello di partecipazione nazionale (atletica leggera, ciclismo, ginnastica, lotta greco-romana e libera, pallacanestro, radioamatorismo) e di vertice internazione in altri sport (pallavolo, scacchi, sollevamento pesi, tiro a segno), sarebbe stato impensabile coltivare leve di ricambio generazionale che potessero condurla alla parte conclusiva dei mondiali anche nel calcio. Pur non trascurando interessanti e clamorose affermazioni quali la vittoria nell’VIII Coppa dei Balcani (primo torneo internazionale per Nazionali europee del secondo dopoguerra): gli Albanesi erano allenati da Ljubiša Bročić, che avrebbe vinto lo scudetto con la Juventus nel 1957-583. Più tardi l’autorevole mensile inglese World Soccer, sul numero del dicembre 1983, proclamò la Nazionale albanese ‘Under 21’, fra le prime otto forti squadre in assoluto nel mondo dopo: Hamburger SV, Aberdeen, Danimarca, Roma, Liverpool, Anderlecht Bruxelles e Gremio Porto Alegre.
Le ragioni
I 28 tornei disputati dai Paesi socialisti fra Europei, Olimpiadi e Mondiali in effetti rivelano un’aporia aritmetica. In Europei (2/7) ed Olimpiadi (9/11)4 registriamo 11 vittorie su 18 partecipazioni: un risultato eccellente, considerando anche l’esiguo numero di Paesi (9) rispetto ai membri che, sino al 1991, erano rappresentati in Uefa e Comitato Internazionale Olimpico. Se osserviamo, invece, il rendimento nei Mondiali e nella Coppe l’ex calcio ‘comunista’ precipita rispettivamente a 0/10 e 12/105. La spiegazione è semplice.
Per il sistema capitalistico – fortemente rappresentato sia in sede Fifa, Cio ed Uefa (mai un loro presidente è stato un ‘comunista’) – ciò che conta non è che vinca il migliore, bensì il più ricco e influente sia ai vertici confederali che presso le commissioni arbitri e sul mercato globale, e il caso delle Coppe è emblematico. A 9 Paesi socialisti che schieravano club composti di calciatori indigeni, si opponevano una pletora di società multinazionali nel vero senso della parola. Essere i padroni della compravendita, con merce esotica da inquadrare negli organici ha pagato alla grande nel periodo 1955-1991.
Per quanto riguarda invece il massimo torneo internazionale (che la ‘legge’ prevede da sempre sia disputato da calciatori col passaporto dello Stato in gara), il liberale dio-danaro ha creato una serie di locali semidèi in terra. Il miraggio e la concretizzazione di smettere di lavorare a 30-35 anni e per il resto vivere senza pensieri e in lusso ed agî, ha offerto loro immensi stimoli che esulavano l’esistenza, tracimando nella bestialità agonistica. Contro tali macchine si fronteggiavano operai, impiegati, ingegneri, militari i cui cosiddetti e tanto ipocritamente sbandierati privilegi, andavano dalla barretta di cioccolato alla possibiltà di allenarsi nell’orario di lavoro. Eh sì! perché costoro lavoravano davvero, durante e dopo cessata la carriera sportiva.
Avete presente il Colosseo? Orbene, fate conto che nell’arena scendessero semplici uomini in maglietta e pantaloncini, con avversari minuti di elmo, schinieri, gladio, scudo, tridente, pugnale e rete. Chi pensate avesse più possibilità di sopravvivere?
Quando si afferma che 12 sole Coppe e due vicecampioni del mondo siano pochi per un grande calcio, com’è stato quello dell’ex Est europeo, si pecca d’ingenuità. S’è trattato, al contrario, di un vero e proprio miracolo d’amor di Patria.
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